alla ricerca della verità

venerdì 9 novembre 2007

l'assenza di Biagi ed il giornalismo moderno - diritto di replica

Di Enzo Biagi so poco o nulla, non ho mai letto uno dei suoi libri e non ho mai visto nemmeno la sua trasmissione più seguita in tempi recenti, "Il fatto".
Sono però uno dei pochi amanti del "double face" rimasti in Italia e guardo sempre con sospetto l'immediata santificazione per acclamazione giornalistico-televisivo-popolare di qualunque personaggio tiri le cuoia nel nostro Paese. Ho smesso di credere da un pezzo, insieme a Babbo Natale anche ai Cavalieri senza macchia e senza paura e i cori di consenso unanime soprattutto da parte della Casta suscitano sempre in me un senso di istintivo sospetto.
Non avendo però le conoscenze per entrare nel merito del personaggio Enzo Biagi mi limito a riportare qui alcune voci fuori dal coro.

Tutti hanno trattato Biagi da Venerabile Maestro, ma sapendo che in realtà era - e ormai da decenni - il Solito Stronzo. Avidissimo, senza cuore (letteralmente: l'organo era stato sostituito da tubi di teflon, miracolo della cardiochirurgia) e perciò reso un non-morto, recitava da finto buono. In realtà, era un'azienda, anzi una piantagione sudista: aveva al suo servizio uno stuolo di negri, intesi come giornalisti anonimi che scrivevano i libri suoi. Libri che lui firmava, dopo averci incastonato, manco fossero rubini e perle, qualcuno dei suoi ripetitivi luoghi comuni - una quindicina in tutto - che ne garantivano il successo. Esempio: «Una volta intervistai Heminghway e gli chiesi se era credente. 'A volte, di notte', rispose». Era lo stile Biagi, e nulla ha più successo presso le dattilografe di un libro che dice quello che già avete sentito mille volte. Il guaio è che Biagi pretendeva di incastonare quei suoi grumi anche nei fondi che esigeva - da Mieli - fossero messi in prima pagina, e sul Corriere. Imbarazzante: di fatto era sempre lo stesso fondo, un fondo di magazzino risalente agli anni '50 e riciclato come spiegazione di ogni fenomeno avvenuto da allora: fosse la discesa in campo di Berlusconi, l'11 settembre o l'invasione dell'Iraq, saltava sempre fuori la storia di Heminghway. Ma Biagi doveva essere accontentato. Un uomo potente e bilioso, vendicativo - ci sono redattori del Corriere, costretti a passare i suoi pezzi, che si ricordano ancora coi sudori freddi, come li trattava quando osavano telefonargli per dire che una sua parola non si capiva (scriveva a mano). Il fatto è che al Corriere era tornato Montanelli, e il buonissimo Biagi non tollerava che Indro andasse in prima, e lui no. Il tipico Solito Stronzo. Scomparso Montanelli, si placò. Forse anche l'idraulica al teflon cominciava a cedere. Ma ormai era passato alla categoria superiore: il Venerato Maestro.
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La vicenda parte nel 2001, quando nella televisione pubblica c’era un anziano collaboratore di 82 anni, Biagi, che conduceva una trasmissione che si chiamava Il Fatto e che aveva almeno due problemi: uno di palinsesto e uno politico. Il primo è questo: il programma di Biagi non andava certo male per essere un prodotto giornalistico, pur extralight, ma andava in onda nella fondamentale fascia pre-serale e perdeva parecchi punti rispetto a Canale5, che vantava e vanta l’imbattibile Striscia la notizia. In un periodo in cui peraltro la Rai veniva accusata di fiancheggiare Mediaset, c’era il problema di non perdere vagonate di incassi pubblicitari durante il programma di Biagi, dunque di ricollocarlo per inventarsi qualcos’altro al suo posto.
Ovviamente non era impresa da poco, anche perché Biagi era un’istituzione, un signore in Rai da 41 anni con un contratto del valore di due miliardi di lire: in sei minuti guadagnava quello che in due ore guadagnava Bruno Vespa e questo al lordo di un ufficio privato e di una redazione. Non è che si potesse spostarlo con un tratto di penna, sicché ci lavorarono per un po’: sinché il direttore di Raiuno Fabrizio del Noce e il direttore generale Agostino Saccà proposero e trovarono infine un accordo con Biagi (lo trovarono, ripetiamo) che prevedeva questo: un programma biennale di dieci speciali in prima serata e altre venti puntate storiche in seconda serata; il tutto con l’aggiunta di un altro miliardo ai due che Biagi già percepiva annualmente. Non pareva male, e infatti Enzo Biagi indisse una conferenza stampa l’11 aprile 2002 (occhio alle date) e annunciò che gli andava benissimo, pur senza privarsi di qualche sarcasmo tipico suo: «Non ho problemi di orario, posso fare un programma anche a mezzanotte, magari mettendo una piccola nota di pornografia. Non c’è problema, sono un signore che fa questo mestiere da tanti anni».

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Il fiume di retorica ed autocelebrazione che il giornalismo italiano versa sulla tomba di Enzo Biagi ha un che di stucchevole, talora di disgustoso. Siccome quando si grida controvento si deve cercare d’essere chiari e brevi, premetto: l’editto bulgaro di Berlusconi fu un obbrobrio. La Rai era certamente schierata contro di lui, ma fa parte del gioco democratico. La Rai è certamente una distorsione del mercato informativo, ma peggio per lui (e per noi) se non ha saputo porre rimedio. Detto questo, a me Enzo Biagi non piaceva. Più che coraggioso, come oggi tutti lo descrivono, mi sembrava conformista. Le battute erano sempre le stesse, per tacere delle citazioni. Era un bolero di Revel, senza neanche l’approdo della chiusa. Naturalmente è stato un grande giornalista, un pedalatore costante, un autore instancabile. Nulla a che vedere con l’eroe oggi melassosamente descritto. E’ patologica la quantità di titoli, articoli, filmati, ricordi, testimonianze: il giornalismo italiano celebra se stesso, si autoraffigura come libero, coraggioso, disposto alle più dure battaglie. Ma quando mai? E’ dipendente dai poteri dominanti, tendenzialmente velinaro, ossequioso con il padrone, servile con l’inserzionista pubblicitario. La storia degli intrallazzi di Telecom Italia ce la siamo raccontata in pochi, mentre la grande stampa continuava a glorificare chi la riempiva di quattrini. Questa è la realtà, mica quella roba da sommovimento funerario che oggi occupa lo spazio della cattiva coscienza. Coraggio? Coraggio di che? Non ci vuole nessun coraggio a mettere in buon italiano quello che il proprio pubblico vuol sentirsi dire. Vale per il giornalismo, per la politica, per un mondo intellettuale sempre più fiacco, moscio, bigio. Non ci vuole nessun coraggio per prendere gli applausi, e non necessità per incassare compensi faraonici. E’ coraggioso, semmai, chi per piccarsi di coerenza continua a parlare da solo o per pochi intimi, chi scrive per passione, chi non si sdraia sul luogocomunismo. E forse neanche quelli sono coraggiosi, sono solo se stessi.Ogni volta che muore qualcuno è un lutto, naturalmente. Chi muove in età avanzata lascia più ricordi, ovviamente. Chi muore è il solo a sapere cosa riserva il dopo, semmai qualcosa riservi. Chi sopravvive, invece, sa con certezza cosa capita in questi casi: parole vuote, omaggi insinceri, descrizione santificante del defunto. Già questo basterebbe per non volere morire mai.
www.davidegiacalone.it

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